La “Riforma Cartabia” e gli effetti sui reati in materia di sicurezza del lavoro
15/05/2023
“Riforma Cartabia”: la “particolare tenuità del fatto” e gli effetti sui reati in materia di sicurezza del lavoro e ambiente
La “Riforma Cartabia” è intervenuta anche sui contenuti dell’art. 131-bis del Codice Penale che disciplina l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, con riferimento a reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a 2 anni (indipendentemente dal massimo edittale), oppure quando è prevista la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta, che non superi tale limite secondo i meccanismi di ragguaglio previsti dall'art. 135 c.p.
L’istituto giuridico della particolare tenuità del fatto è stato introdotto per la prima volta dal D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28 con l’obiettivo di attuare una deflazione dei carichi giudiziari, nel rispetto dei principi fondamentali di offensività, sussidiarietà e proporzionalità. In relazione a tale valutazione rilevano, nel giudizio espresso dal magistrato, anche la particolare modalità della condotta e l’eseguità del danno patito o del pericolo astratto o presunto oltre alla non abitualità del comportamento. La modifica ai contenuti dell’art. 131 bis è stata introdotta da ultimo dall'art. 1, comma 1, lett. c), n. 1), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, con decorrenza dal 30 dicembre 2022.
Da ricordare a tale proposito che, ai sensi dell’art. 2 comma 3 del c.p., se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135 c.p.
Sul fronte dei reati in materia di sicurezza del lavoro occorre però considerare che l’offesa NON può considerarsi di particolare tenuità quando la condotta abbia cagionato, o da essa siano derivate quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravi o gravissime.
La lesione personale si considera grave se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o una incapacità di attendere alle normali occupazioni per un tempo superiore ai 40 gg. oppure se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo.
La lesione personale è gravissima se dal fatto deriva una malattia cronica o probabilmente insanabile, la perdita di un senso, la perdita di un arto o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella, la deformazione ovvero lo sfregio permanente del viso.
In caso di morte di un lavoratore i responsabili del fatto, commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, sono puniti per omicidio colposo per cui è prevista la pena della reclusione da 2 a 7 anni, aumentabile fino al triplo nel caso di morte di più persone ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, fermo restando il massimo di 15 anni.
Se un lavoratore patisce lesioni personali colpose i responsabili del fatto, commesso con la violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, sono puniti per le lesioni gravi con la reclusione da 3 mesi ad 1 anno o con la multa da euro 500 a 2000 e per lesioni gravissime con la reclusione da 1 a 3 anni, aumentabili fino al triplo nel caso di lesioni di più persone, fermo restando il massimo di 5 anni.
Occorre dunque, al fine dell’applicabilità della particolare tenuità del fatto e la conseguente non punibilità, tenere sempre in considerazione l’entità della pena correlata al reato commesso.
Altro aspetto di rilievo nella valutazione del magistrato è il comportamento dell’imputato che viene considerato abituale nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate (in tale senso si è espressa anche Cass. pen., Sez. III, 11 gennaio 2018, n. 776; Cass. pen., Sez. III, 5 aprile 2017, n. 30134). Significativo per i magistrati sarà il comportamento dell’indagato che abbia provveduto ad attivarsi con azioni riparatorie, restituzioni, risarcimenti o ripristino dello stato dei luoghi (come ad esempio potrebbe avvenire nei reati ambientali).
E’ importante considerare inoltre che la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto non è applicabile alla responsabilità amministrativa degli Enti per fatti commessi nell’interesse dell’Azienda o a suo vantaggio dai propri dirigenti o dai soggetti sottoposti alla loro direzione, in regione delle posizioni verticistiche coinvolte (Cass. pen., Sez. III, 15 gennaio 2020, n. 1420).
Dal punto di vista processuale la declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto può dar luogo ad un provvedimento di archiviazione (art. 411 c.p.p.) con ordinanza o decreto di archiviazione da parte del giudice delle indagini preliminari su richiesta del PM oppure con provvedimento del giudice a conclusione dell’azione penale, ad una sentenza di non luogo a procedere (art. 420 c.p.p.), al proscioglimento dell’imputato predibattimentale (art. 469 c.p.p.), o ad una sentenza di assoluzione (art. 530 c.p.p.).
La causa di non punibilità può essere rilevata d'ufficio anche dal giudice d'appello (Cass. pen., Sez. VI, 26 marzo 2019, n. 13219).
Un aspetto di rilievo è dato dalla iscrizione dei provvedimenti di archiviazione per particolare tenuità del fatto nel casellario giudiziale, ma senza menzione nei certificati a richiesta dell’interessato, del Datore di lavoro e della Pubblica Amministrazione, perché la corretta applicazione dell’istituto richiamato dall’art. 131-bis c.p. presuppone che il magistrato abbia sempre la possibilità di verificare l’eventuale reiterazione del reato nel tempo, indipendentemente dal giudizio di minimo disvalore già espresso rispetto a eventi già valutati (in tal senso si è espressa la Cass. pen., Sez. Un., 24 settembre 2019, n. 38954).
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